A Milano avevo un albero bellissimo. Vero. Lo avevamo chiamato Pino, anche se era un abete, perché volevamo che si distinguesse da tutti quei brutti abeti che si vedono in giro nel periodo natalizio: spelacchiati, con i rami tutti storti e con i giorni contati. Pino veniva da un vivaio dell'hinterland milanese e costava tre volte di più rispetto ai suoi colleghi. Il vivaista ci aveva che gli abeti, quelli in vaso, che a Natale si vendono a prezzi stracciatissimi, non hanno le radici. Sì, poverini, vengono piantati nel vaso con il tronco tagliato, come fiori recisi, e ovviamente muoiono subito dopo aver svolto la loro funzione di decoro festivo. A volte avviene il miracolo e qualcuno di questi tronchi mozzati ramifica, ma è un miracolo veramente molto, molto raro. Pino le radici ce le aveva eccome. Era un albero a tutti gli effetti e sarebbe stato con noi per anni se ne avessimo avuto la giusta cura. Così ci congedò l'esperto vivaista. Per quattro lunghi anni, a primavera, Pino metteva nuovi germogli e cresceva di molti centimetri; per tre Natali ha ricoperto con onore il suo ruolo di abete natalizio; per altrettanti inverni se l'è spassata sotto i fiocchi di neve milanesi. Poi lo abbiamo portato con noi a Procida e, nonostante tutte le nostre cure, Pino non ce l'ha fatta. Non è proprio riuscito a resistere ai colpi di sole del sud e all'aria intrisa di salsedine del Mediterraneo. Pino è morto, ed è una delle cose che più mi mancherà della mia vecchia vita. Quest'anno non abbiamo un albero di Natale in casa. Dobbiamo ancora metabolizzare il vuoto lasciato da Pino. Non abbiamo appeso decorazioni né luci sulla porta d'ingresso. Gli unici simboli del Natale, in casa nostra, quest'anno, sono le nostre due calze della Befana appese ai loro rispettivi gancini, un piccolissimo angioletto bianco e oro e una pallina col sonaglio appesa alla porta della camera da letto. In qualche modo, questo è il Natale zero della nostra nuova vita, una vita in cui tutto deve ancora partire, in cui ogni cosa dev'essere ricostruita e in cui i vecchi simboli devono fare spazio ai nuovi. Pino forse lo aveva capito che sarebbe stato solo il retaggio di una vita passata, incompatibile non solo con il nuovo clima, ma anche con le nostre nuove emozioni. Collezioneremo ancora addobbi, pochi per volta, ricercandoli con cura. Durante i prossimi Natali nella nostra casa torneranno i bagliori, gli sbrilluccichii e i colori. Ma non ora. Ora non abbiamo ancora capito quale sarà il nostro nuovo stile. Questo Natale sarà bianco: bianco come la neve fresca, come un lenzuolo appena lavato, come un foglio di carta sul quale nessuno ha ancora scritto nulla perché ancora in attesa della giusta ispirazione. INGREDIENTI
PROCEDIMENTO Per preparare il latte di cocco Fate bollire 500 ml di acqua e unitela a 60 gr di farina di cocco. Una volta freddo, filtrate il liquido con l'aiuto di un panno di cotone o di lino. Avrete così ottenuto il latte di cocco. Non buttate la farina che rimane nel telo perché la userete per fare la ciambella. Per preparare la ciambella Accendete il forno a 180°. Ungete e infarinate uno stampo da ciambella. In una ciotola, unite la farina tipo2 con la farina di cocco avanzata dalla preparazione del latte. Aggiungete lo zucchero di cocco e il pizzico di vaniglia in polvere. Versate il latte di cocco e l'olio di cocco allo stato liquido (per farlo sciogliere potete anche mettere il vasetto sul termosifone per qualche minuto). La quantità di latte di cocco necessaria potrebbe leggermente variare in base a quanto sarà rimasta umida la farina di cocco. Aggiungete, infine, la bustina di lievito o, in alternativa, il bicarbonato e il limone. Il bicarbonato e il limone possono essere usati sempre, nella preparazione dei dolci, al posto del lievito. Versate il composto nello stampo per ciambella e fate cuocere in forno caldo a 180° per circa 35, 40 minuti. Quando la ciambella si sarà raffreddata, toglietela dallo stampo e spolveratela con della farina di cocco.
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La melannurca è una mela piena d'amore. E, stavolta, Biancaneve non c'entra nulla. La mia nonna me ne regalava sempre una da mangiare come merenda, di mattina, quando tornava dal mercato ortofrutticolo di Caserta. - Lei al mercato vendeva "gli odori" (prezzemolo, origano, basilico, eccetera) e per questo la chiamavano "putrusina" (il "putrusino" è il prezzemoli in napoletano). - La mia mamma, ma anche la zia Maria, preparavano sempre il decotto di melannurca quando avevamo il mal di gola o il raffreddore. "Con tutta la buccia, però, se no non fa effetto." Era una mano santa. E lo è ancora. Quando annuncio un leggero mal di gola invernale, posso io stessa ripetere a memoria la raccomandazione di mia madre, senza neanche aspettare che sia lei a parlare. Non mi consiglia né farmaci, né tisane: "fatti il decotto di melannurca. Con tutta la buccia però, se no non fa effetto". Mio nonno, invece, le metteva sotto la cenere rovente del braciere e, dopo un poco, la stanza profumava vagamente di strudel bruciacchiato, un po' asprigno. Ma ne io ne i miei nonni sapevamo cosa fosse lo strudel, allora. Solo dopo ho potuto associare quel profumo al dolce trentino. L'aria costiera della Campania, non è proprio la zona perfetta per coltivare mele. Il melo è un albero che cresce un po' ovunque, ma ovviamente ci sono contesti in cui da il meglio di sé ed altri in cui, diciamo, si arrangia. Credo che, ad un certo punto, qualcuno si sia reso conto che anche i meli campani dell'area costiera potevano produrre frutti eccellenti: bastava solo dedicare loro cura e amore. E così, da almeno due millenni, si raccolgono queste mele a settembre, quando sono ancora acerbe, e si mettono a maturare al sole per 2 settimane, tutte belle distese sui "melài", ovvero, su giacigli di paglia ricavata della trebbiatura del grano. In questi 15 giorni circa, le mele vengono girate a mano ("avutate", in napoletano) molto frequentemente per evitare che marciscano. Questo esercizio di pazienza e di cura, in passato, veniva svolto unicamente dalle braccianti donna, e tra queste c'era anche la mia nonna. Qualche settimana fa, un caro amico ha subìto, d'urgenza, un'operazione chirurgica molto delicata. Appena è stato meglio, sono corsa a salutarlo. Non ho avuto alcun dubbio su cosa dovessi portargli in dono: un dolce alla melannurca, il frutto che da sempre, per me, è sinonimo di cura e amore. Visto il clima del momento, mi pare doveroso precisare che non penso che le persone debbano curarsi, nel un post intervento chirurgico, mangiando mele annurche. Resta un dato di fatto, però, che la cura e l'amore che si dedicano a qualcuno o a qualcosa possano fare anche la differenza tra restare malati o guarire pienamente, ma anche tra mediocrità ed eccellenza. La Melannurca presenta due varietà: la "Sergente" e la "Caporale". La prima, dal sapore acidulo, ha la buccia striata di colore giallo-verde mentre la seconda, più dolce, è rossa a puntini bianchi. Per chi volesse saperne di più www.melannurca.it, il sito del consorzio. INGREDIENTI
PROCEDIMENTO Preparate la "sfoglia" impastando insieme la farina, la cannella, l'olio e il succo di mela fino ad ottenere un impasto liscio, omogeneo e lavorabile. Se la pasta dovesse essere troppo molliccia aggiungete un poco di farina in più, viceversa, se è troppo dura, versate ancora un poco di succo di mela. Lasciate riposare un poco l'impasto e nel mentre, preparate le mele. Lavate e asciugate bene le mele. Levate il torsolo e poi tagliatele a metà, se avete lo strumento per togliere i torsoli. Tagliatele prima a metà e poi con uno coltello eliminate il torsolo con cura, se non avete lo strumento adatto. Tagliate ulteriormente ogni mezza mela in tante fettine sottili senza sparpagliarle, in modo che si possa mantenere la forma. Stendete la pasta con un matterello e realizzate dei cerchi abbastanza grandi da contenere mezza mela. Spalmate questi cerchi con un velo di tahina e con la marmellata. Adagiate sopra la mezza mela. Irrorate con un poco di sciroppo d'acero o spolverate con un pizzico di zucchero di cocco o mascobado. Cuocete in forno caldo a 180° per circa 25 minuti. Potete realizzare anche una "crotata" unica, facendo attenzione a cuocerla qualche minuto in più, fino a che la pasta non diventa bella dorata. Arriva fino in fondo al post per compilare la prenotazione!A luglio dell'anno scorso, ho tenuto delle lezioni di cucina naturale, qui a Procida, ed è stata una delle esperienze più divertenti mai fatte. Stimolata anche dalle richieste di chi non aveva potuto partecipare allora, ho deciso di ricominciare, introducendo qualche piccola novità. Quest'anno, oltre alle cinque lezioni base (frequentabili singolarmente ma anche come corso completo di educazione alimentare), ho introdotto una serie di lezioni tematiche su argomenti specifici e la possibilità di seguire lezioni individuali e personalizzate, anche a domicilio. Considerando poi che siamo quasi alle porte del Natale e che bisogna cominciare a porsi seriamente il problema dei regali, ho realizzato dei coloratissimi coupon. Una o più lezioni di cucina naturale possono essere una regalo divertente e originale, magari da farsi anche vicendevolmente, in modo da poter passare un po' di tempo con le persone a cui vogliamo bene. E siccome ogni occasione è buona per farsi un regalo, perché non pensarci anche per un compleanno o in qualsiasi altra occasione? ELENCO DELLE LEZIONI (le date saranno tempestivamente aggiornate)
Compilando il modulo sottostante, è possibile prenotarsi scegliendo la lezione di gruppo in programma, un'altra lezione di gruppo oppure una lezione individuale. Selezionando invece l'opzione coupon, avrete la possibilità di regalare una o più lezioni di cucina naturale a chiunque vogliate e per qualsiasi occasione. Una volta compilata e inviata la prenotazione sarete contattati tempestivamente per ulteriori dettagli. Le lezioni si terranno in via Flavio Gioia 17, Procida (NA), zona Piazza Olmo. Se avete bisogno di ulteriori informazioni scrivetemi: whatsapp 3490566851 Costo lezione € 50 a persona Costo lezione individuale € 70 a persona In ogni comunità, che ci si trovi in un piccolo paese o in una grande città, ci sono dei tormentoni periodici: all'improvviso tutti non fanno altro che pensare e parlare della stessa cosa. Questi, da me, sono i giorni della mensa scolastica. Panino sì, panino no, e il menù non va bene, e io preferivo il monouso, e le intolleranze?, e merendine con l'olio di palma, e l'orto scolastico, e mio figlio questo non lo mangia, eccetera, eccetera. Tutto diventa terreno di scontro per mamme agguerrite. Non ricordo in quale articolo, un po' di tempo fa, lessi che "perfino Gesù Cristo, le cose più importanti le ha fatte mangiando". Non è strano, quindi, che si ponga tutta questa attenzione e che si spendano tante energie per un momento fondamentale della vita dei bambini. A volte però, mi viene da pensare che ci si spenda troppo per le cose meno importanti. Mangiare è un momento altamente educativo per i bambini: non solo per trasferire loro una corretta educazione alimentare (che pure manca), ma perché assaggiare cibi sempre diversi, sempre vari e a volte perfino "strani", aiuta a superare i pregiudizi e a mantenere una buona apertura mentale anche su tutto il resto. È comprensibile che, talvolta, prese dalla disperazione, alcune mamme, piuttosto che veder digiunare il proprio pargolo, preferiscano preparargli quelle quattro, cinque cose che sanno per certo essergli gradite. Ma ogni volta che diamo per scontato che un bambino non potrà sopportare il retrogusto amarognolo del friariello, o il pizzicorio dello zenzero, o la consistenza croccante della carota cruda, gli stiamo praticamente dicendo che non deve sforzarsi a superare le sue barriere mentali, che solo rimanendo chiuso nell'angusto spazio di ciò che è conosciuto, potrà tenere a bada le sue paure. Certo, l'apertura mentale non è solo lo specchio delle nostre abitudini alimentari, e non è grave se di tanto in tanto ci arrendiamo alla sicurezza e al conforto di un trancio di pizza, ma sicuramente il cibo fa la sua parte, ed è giusto sfruttare il rito del pasto per orientare ed educare le acerbe personalità dei nostri pargoli. Quando questo non avviene da piccoli, non è mai troppo tardi per cominciare. A volte basta organizzare cene tra amici completamente diversi tra loro, cercando di trovare una quadra tra i limiti e le aperture gastronomiche di ciascuno, e facendo in modo che ognuno contamini l'altro. "Pensa", disse lei, "fino a quattro anni fa, il cavolfiore mi nauseava, ma proprio che mi veniva da vomitare. Ora invece ne mangerei a quintali. Perciò ti dico: sii audace." "Vedremo" risposte lui. "Questo futuro semplice mi sembra già un buon inizio" sorrise lei, felice. "La buona compagnia farà il resto" la salutò lui. Fu quello in momento esatto in cui ebbe la conferma che i suoi sospetti erano fondati: mangiare insieme non solo può aiutarci a migliorare la nostra alimentazione, ci migliora proprio la vita. INGREDIENTI
PROCEDIMENTO Pulite e lavate il cavolfiore. Cuocetelo al vapore per circa 8 - 10 minuti. Sbucciate le patate e tagliate in pezzi non troppo piccoli. Cuocetele al vapore fino a che non diventano morbide. Mentre il cavolfiore e le patate si raffreddano, snocciolate le olive. Tritate insieme le olive, l'aglio, il prezzemolo o l'origano, e i capperi. Schiacciate le patate e i cavolfiori con una forchetta e unite il trito. Mischiate tutto insieme con le mani, continuando a schiacciare. Aggiustate di sale e di pepe o, se preferite, di peperoncino. Aggiustate il composto in una teglia da forno oleata e spolverata con il pangrattato. Se l'impasto dovesse risultare troppo molle, aggiungete un poco di pangrattato anche al suo interno. Spolverate la parte superiore con il pangrattato e, se volete, anche con semi di sesamo. Irrorate con un poco di olio e fate cuocere in forno caldo a 200° per 30 minuti circa. Ho fatto le foto quando lo sformato era ancora molto caldo e, quindi, si è completamente sfatto; se lo lasciate riposare un poco, riuscirete ad ottenere delle fette piuttosto compatte. Sì, lo so che questo è un blog di cucina e di ricette, ma spesso nei miei post non parlo né di cucina, né di ricette, né di marche di prodotti, né di spese al mercato. Il cibo è una parte fondamentale della mia vita, perché ci lavoro, perché è una passione e perché, ovviamente mangio dalle 3 alle 5 volte al giorno (a volte anche di più, purtroppo). Ma il cibo non è un fenomeno che si manifesta completamente avulso da tutto il resto: il cibo "accade" mentre scorre la vita, mentre intorno succedono cose e mentre dentro di me si affollano pensieri ed emozioni. Questi sono "i giorni delle donne". Cucino e ascolto al telegiornale le vicende hollywoodiane del caso Weinstein. Leggo una ricetta e seguo sui social le campagne che invitano le donne a denunciare le molestie subite. Vado a comprare le verdure bio e la commessa mi dice che sono arrivate le zucchine gialle tonde, quelle di Benevento. Sorrido tra me e me, perché nella frazione di un attimo penso a queste zucchine che sembrano zucche, a Benevento, alle streghe, al femminismo, alle donne, alla disparità di genere, alle notizie di questi giorni. Il cerchio è chiuso e io mi convinco ancora una volta che il cibo accompagna la mia vita e i miei pensieri in modi che nemmeno io riesco a immaginare, o forse che solo io immagino, chissà. Provando a trovare un filo logico tra tutti questi elementi, scopro che è veramente molto importante capire chi e cosa fossero le streghe per comprendere fino in fondo le donne che siamo diventate e il nostro ruolo nella società. Le streghe erano tutte quelle donne che si allontanavano da un modello femminile canonico stabilito dalla Chiesa e dallo Stato, sfidandone, di fatto l'autorità e il potere: la moglie disobbediente, l'adultera, la guaritrice, l'eretica, l'ostetrica, la prostituta, la libertina, eccetera. "La caccia alle streghe è stata una guerra contro le donne: un intento coordinato di denigrarle, demonizzarle e distruggere il loro potere sociale" (Silvia Federici) La morte delle donne sul rogo doveva servire da monito alle sopravvissute che, per evitare di fare la stessa fine assumevano un ruolo passivo, sottomesso, docile e obbediente. Ma le donne, nonostante tutto, non hanno mai smesso, in tutti questi secoli, di essere consapevoli del proprio valore, della propria sessualità, dell'importanza della complicità con le altre donne. Quella complicità che avrebbe potuto mettere in crisi il progetto della Santa Inquisizione, perché più un individuo si sente isolato e vulnerabile e meno forza avrà nell'affermare sé stesso. La complicità tra noi donne ci è stata preclusa anche attraverso il linguaggio: laddove c'è comunanza di idee e di intenti, c'è fratellanza, anche se si parla di donne. La parola "sorellanza" ha il suono di un vocabolo che non esiste. Sarà per la loro forma e il loro colore, che mi ricordano molto le zucche dell'halloween appena passato, sarà per quel giallo intenso che mi ricorda il famoso liquore Strega che si produce, pensate un po', proprio a Benevento, sarà perché vengono dalla città delle streghe per eccellenza, che queste zucchine per me saranno sempre le zucchine "streghe di Benevento". E sul come mai Benevento sia stata scelta come la sede ufficiale delle streghe italiane ne potremmo parlare in un altro momento, anche perché forse questa affascinante storia la conoscete già. Intanto, vorrei proporre, visto il momento storico che stiamo vivendo, di far diventare queste zucchine un simbolo: il simbolo delle streghe del 2017. Perché oggi più che mai, in quanto donna, io mi sento una strega alla ricerca di una giustizia storica che mai ci è stata riconosciuta; una donna che può andare ovunque, che cerca la "sorellanza" con le altre donne, che non si doma, che non si arrende: una femminista (Sangre Fuchsia). E se tutto questo c'entra con le zucchine, decidetelo voi. INGREDIENTI
PROCEDIMENTO Preparate il cous cous come indicato dalle istruzione sulla confezione che avete deciso di utilizzare. Mettetelo a raffreddare. Lavate le zucchine e tagliatene la parte superiore come a creare un coperchio. Con uno scavino, svuotate le zucchine di tutta la loro polpa. Tritate finemente la polpa delle zucchine. Tritate lo spicchio d'aglio e il rosmarino. Fate rosolare in padella, con un filo d'olio, la polpa delle zucchine tritate con un poco di aglio e il rosmarino. A fine cottura, salate. Lavate e tagliate i pomodorini e fateli saltare in padella con un filo d'olio, il restate aglio e le foglioline di rosmarino. A fine cottura, salate. Unite il cous cous, la polpa delle zucchine e i pomodorini aggiustando di sale e pepe. Se lo riterrete opportuno, aggiungete anche altro rosmarino e origano tritato. Riempite le zucchine con il cous cous e ungetele di olio esternamente. Infornate in forno caldo a 200° per circa 45 minuti, stando attenti a non bruciare la superficie. Fate riposare un pochino e servite quando sono ancora calde. Personalmente, preferisco prepararle prima e mangiarle riscaldate in forno. |
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